venerdì 29 marzo 2024
Racconti Drammatici

IL RICHIAMO DELL'AQUILA NERA

“E’ tutto finito, ispettore……possiamo andare.”
Il sangue che fa da tappeto ai corpi delle due donne sembra lo sfondo inevitabile di un massacro che si è manifestato in tutta la sua surreale disumanità.
L’assassino è qui, molto vicino a me, che guarda sbalordito le facce di tutti, quasi come cercasse di spiegare che è lui il genio e che gli altri sono tutti folli.
E' il marito della donna che ora giace al suolo ed è il padre di quell’angelo appollaiato vicino alla madre con gli occhi chiusi che non hanno avuto nemmeno il tempo di riconoscere la violenza. Un infame, si sarebbe detto. Un carnefice. E sicuramente nessuno avrebbe avuto da obiettare.
Ne ho viste moltissime di scene così terrificanti, ma questa immagine snaturale mi mette addosso una stranissima sensazione di disagio. Sono l'ispettore, quello che deve sempre tenere la calma, amministrare gli eventi. Ma in questo momento sento mancarmi quell'autocontrollo che pure mi è sempre appartenuto.
Anch’io ho una moglie. Anch'io ho una figlia. E quel quadro di vita bruciata, come si brucia un fiammifero, sta aprendo in me conflitti devastanti. Avverto un senso di cedimento, una sbandata. Un vortice di angoscia mi attira nel suo imbuto. Il mio volto sembra un ritratto, una paralisi, una maschera di carbonio che mi attraversa il cervello e mi lascia senza forze. Ne avevo viste veramente tante.....ma forse sto invecchiando. Il mio stato decadente non lascia spazio ad altre ipotesi, la serenità è un sentimento che per averlo adesso pagherei mille volte di più il suo reale vero, già di per se immenso. Sembra quasi che sto crollando, ma vengo trafitto da un senso di semi-ipnosi. Il silenzio del mio corpo è uno scudo che ostruisce il grido della mia anima.
Riesco a distinguere tutti, a capire saltuariamente cosa accade intorno a me, riesco a guardare e conoscere, ma è come se io stessi in un altro posto. Non riesco a intervenire, ad irrompere nella vita, ad uscire da questa barriera di immobilismo mentale nella quale mi sono imbattuto.
Sono l’ispettore, devo pur dare qualche spiegazione a tutti. Ma questa donna che sembra guardarmi con occhi dannati mi trascina nelle pieghe di una vita passata a scovare assassini di vittime innocue. In questo viaggio nel mio archivio mnemonico mi sembra di ascoltare tutti i richiami di aiuto delle persone trafitte dalla violenza. Sono solo un ispettore, non certo un eroe, ma la mia coscienza inizia a pesarmi come un macigno insanguinato. Non sono io la vittima. Non sono io il carnefice. O forse sono entrambe le cose.
I giornalisti, certo, sono qui. A stilare articoli su articoli, pezzi a nove colonne. La tragedia familiare fa sempre spessore in un giornale di cronaca, le vendite sarebbero raddoppiate; i fotografi imperterriti ad illuminare la stanza con i lampi di luce dei loro attrezzi: anch’io ne ricevo parecchi, d’altronde (senza falsa modestia) sono stato un protagonista in questa faccenda, quasi l'elemento determinante, il valore aggiunto. Ma le luci della ribalta non mi sono mai piaciute, nè tantomeno mi piacciono in quest'occasione. Così con un cenno della mano invito i reporter a spostare i loro obiettivi, magari sulle vittime; gli agenti, i miei agenti, fermi accanto ai corpi inanimi, di tanto in tanto mi guardano come per attendere l’ordine che li permetta di portare il criminale in carcere; poi i periti, i medici, che devono solo limitarsi a constatare il decesso per armi da taglio, considerando che non ci sono da rilevare tracce o orme digitali.
Non so se qualcuno si sarà accorto di questo mio stato di perdurante insensibilità, di questo mio aspetto da fantoccio. Un manichino, ecco cosa sembro. Gli occhi di quella donna mi tengono legato, fermo, incatenato al suo stesso destino, in un tutt'uno di ombre e sentimenti martiri. Come se non avessi mai visto gli occhi di una persona uccisa. La bambina, poi. Con la manina ancora alzata sembra voglia effettuare un ultimo slancio, un ultima richiesta di aiuto, un ultima possibilità di vivere, che nessuno è stato in grado di offrirgli.
Dovrei smetterla di avere rimorsi, forse il vero problema è di natura egoista: il mio quadro familiare è pressoché identico. Io, mia moglie e la bambina. Dovrei forse telefonargli. Ma perché poi? In fondo non avrebbe senso. E' tardi, sicuramente dorme. Ma perché questa donna continua a fissarmi? Attraverso i suoi occhi spenti riesco a guardare molte cose, tutte conosciute. Riesco a cogliere le sfumature di una vita che non riusciamo mai a capirne il senso. Riesco a riordinare i fili di un tormento che non ha mai avuto freno.
E’ il tempo che passa. O sono io che passo nel tempo. Questa notte diventerà lunghissima se non mi libero di questo pensiero. Un ispettore, certo. Un ispettore rispettabile, sicuro. Un ispettore rispettabile e in gamba, figurati. Ma io adesso cosa sono? Sono un tentativo, un idea, una voglia di far bene. Sono una promessa mantenuta, un patto riuscito. Ma cosa ho io per definirmi vivo rispetto a questi corpi che definiscono morti?
Un cedimento. Una caduta. Mi rialzo forte. Più forte di prima. Più forte di quel bambino che già da piccolo fa la parte delle guardie nel gioco più facile dell’infanzia. Più forte di quel ragazzotto che non ama la scuola, ma non commette sciocchezze. Più forte di quel giovane che cerca la carriera nella Polizia di Stato. Più forte di quell'ispettore che tanti meriti ha conquistato sul suo campo di battaglia. Più forte di tutto. Ma sono debole. Sento un tarlo che danza nel mio io, forse è solo il vento che muove le foglie. Questo giorno dovrà pur passare. Sto riuscendo a muovere un braccio. Magari adesso qualcuno si accorge che sto male. No, forse sono io che dovrei accorgermi che sono gli altri a star male. Il mio agente sembra un imbecille. Continua ad aspettare la mia risposta ma non mi guarda mai negli occhi. La scena principale resta lì a terra. Cos'ha nella mano la bambina? Una bambolina! Cristo stava giocando! Nessuno si è accorto che la bambina giocava? Come si può essere così spietati? Se avessi la forza prenderei quell'uomo e lo ucciderei di botte. Fosse anche l'ultima cosa che farei. Un pensiero un pò bastardo mi ronza in testa. Vorrei tanto ringraziare Dio che mia moglie e la mia bambina sono sempre lì, a casa, magari nel letto, ignare di quanto il mondo a volte possa essere cattivo. Le abbraccerò, stanotte. O forse domani. Magari la settimana prossima. Comunque un giorno o l’altro le abbraccerò. Non so ancora che ore sono. I miei agenti non mi hanno informato. Spero solo che tutto ciò finisca presto. Non mi piace la ribalta, l’ho già detto. I dottori devono fare ancora il loro lavoro. Scrupolosi. Attenti. Imperscrutabili. Ma qual è il lavoro di un dottore? Dirti che stai morendo mentre muori? Dirti che sei vivo mentre vivi? Ricordo ancora le parole di quel medico. O comunque uomo in camice bianco. "Abbiamo rinchiuso suo padre in una cella particolare. Nelle sue allucinazioni vede una grossa aquila nera seguita da uno stormo di uccelli che invadono la stanza e lo attaccano. E’ molto pericoloso, la sua voglia di uccidere potrebbe non limitarsi a vostra madre. L'aquila e gli uccelli da cui si sente assalito sono solo il frutto di una sua pazzia omicida che ormai è incontenibile."
Balle. Mio padre fu solo un capro espiatorio per coprire il loro fallimento nelle ricerche dell’assassino di mia madre. Non so adesso di mio padre cosa ne hanno fatto. Ne avranno sicuramente costruito un matto esemplare o un fenomeno da baraccone. Che c’entrasse anche in questo delitto? Probabile. Ma l’ispettore sono io. Questo caso è mio. E il caso è chiuso. La storia è chiusa. Anche il bar adesso è chiuso. Peccato, un buon martini sarebbe stato utile adesso. Ma perché non si chiudono ancora gli occhi di questa donna? Dovrei girarmi dall’altra parte. Certo che se lo facesse lei mi risparmierebbe una faticaccia. E’ tardissimo. Sembra anche che stia piovendo. Se ricordassi il numero telefonerei a mia moglie. Inizio a preoccuparmi. Perché non chiama lei? Non l’ha mai fatto, è vero. Ma perché non l’ha mai fatto? E’ una donna unica, insostituibile. E se......No, no. E’ solo un pensiero sciocco, perfido. Devo allontanarlo. Allontanato. Chiudo gli occhi, li riapro. Non è ancora allontanato. E’ qui. Mia moglie mi tradisce? Con chi? E’ impossibile, non le faccio mancare nulla. Però sono curioso. Appena torno a casa glielo chiederò. Certo, appena torno. Appena questa stronza sarà andata a riempire un fosso nel cimitero. E tutti andremo a mangiare. O a dormire. O a controllare le nostre mogli. Cosa faccio se scopro mia moglie con un altro? Una scenata? La prendo a botte? Se fossi una persona violenta magari lo farei. Ma vi confido che odio la violenza. Anzi, la temo. Se questa donna non si alza e non pulisce il suo sangue va a finire che vado a vomitare. La valigia. Prenderei decisamente la valigia. Gli lascerei la bambina, un tesoro, ed andrei via. Magari avrei uno slancio eccessivo di lucidità e riuscirei anche a stringere la mano a entrambi. Però ci resterei male. Andare via così non è il massimo della vita. Gelosia. Dannata gelosia. Cavolo, cosa sono queste trappole? Io sono in servizio, non devo pensare alle mie paranoie. Forse è il caso di spegnere la luce e andare via. Lasciarli tutti al buio. Sarebbe divertente. Chissà se al buio questa donna continuerebbe a fissarmi, se la bambina mollerebbe la bambolina, se gli agenti si svegliassero dal torpore, se i medici la smettessero di sussurrare. Qualcuno mi cercherebbe. Ma chi se ne frega. Un giorno di vacanza non è poi la fine del mondo. Magari andrei a trovare mio padre, rinchiuso in chissà quale pianeta. Se solo smettesse di piovere…
Noto che ho mosso un piede, sto facendo grandi cose. La volontà è tutto. Sarà un segnale di Dio per dirmi che tutto sta finendo. O magari iniziando. O forse tutto scompare. Compreso Dio. Dio esiste. Io non l’ho visto, ma qualcuno dice di averlo visto. Forse Dio è il mio portinaio. Chi può dire che è lui è vero. Ma chi può dire che non è lui? Se mi chiamano a testimoniare dirò senza dubbio che potrebbe essere. La parola di un ispettore vale sempre di più. Solo con mia moglie la mia parola vale di meno. Che sia maledetta. Lei e il suo amante. O Cristo ci sono ricascato! Non devo dirlo. Non sono geloso. Lei è unica. E’ la moglie che tutti vorrebbero avere. Compreso questo scellerato che ha fatto a pezzi la propria. Ma perché questa donna non guarda suo marito? Cosa vuole da me? Un messaggio? Vuol dirmi che forse è viva? O vuol dirmi che è morta? Non sono mica un cretino, lo riesco a vedere bene. Lei è viva. Il morto sono io. Stanno aspettando me questa gente. Tra poco arriverà la solita lettiga, la solita ambulanza, il solito dottore, il solito blablabla. Sai che sorpresa quando gli dirò che respiro ancora. Perché respiro ancora, vero? Io penso. Chi pensa è vivo. Ma chi è vivo pensa? Cosa differenzia la vita e la morte? Questo sangue di chi è? E’ della bambolina con cui giocava la bambina? Ho capito. Fermi tutti. La signora ha ammazzato la bambolina, la bambina si è vendicata ed ha ucciso la mamma, poi i miei agenti hanno ucciso la bambina. Arrestate i miei agenti. Sapevo che non c’era da fidarsi di loro. Ma perché nessuno mi aiuta? Sono a terra nel sangue e nessuno mi soccorre? Vorrei chiudere gli occhi e dormire. Sono stanco. Oggi è stata davvero una giornataccia.

“Ispettore, andiamo”.
L'agente me lo ripete. Il cielo si è rabbuiato. La mano tiepida del silenzio cala come una mannaia.
Certo, andiamo. Ma mi lasci i polsi per favore, la strada la conosco.
Ci avviamo lentamente verso l’uscita, ho ancora le mani sporche di sangue. Cerco la lama che avevo in mano, ma non la trovo. Mia moglie, lì a terra, mi fissa ancora, mentre la bambina gioca con la bambolina. “Torno subito amore, aspettami per la cena”.
Non mi risponde. Valle a capire le donne. Prima tradiscono e poi fanno le offese. Ma non ci casco.
Ho finalmente capito di non essere geloso. Sto al suo gioco. Sorrido. Vado via.
Mentre dalla finestra noto un aquila nera che, minacciosa, vola verso di me.


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BINGO!

Guardò e riguardò la schedina tra le mani. Non era possibile. La fortuna aveva scelto proprio lui. Lui che era da sempre stato estraneo a questo giro di vite improvvisamente cambiate. Non poteva crederci, ma i sei numeri sulla scheda erano proprio quelli stampati sul NewYorkTymes. 23-43-11-57-89-3. Aveva fatto Bingo! Venticinque milioni di dollari tutti per lui. Per lui, che lavorava sodo per averne circa 2000 al mese.
Eppure l’oroscopo, a cui egli credeva molto, gli aveva previsto tutt’altro. “Eventi negativi pendono nella sfera dei nati nella seconda decade di marzo”. Era la sua. Per uno che dava molta importanza agli oroscopi, quelle due righe rappresentavano un crollo di un ideologia, uno schiaffo in pieno volto, nonostante il trionfo. L’oroscopo gli aveva previsto tutti i suoi eventi più importanti: “In questi giorni è previsto un incontro importante” : fu l’oroscopo di due giorni prima che incontrasse la sua donna di sempre; “Il nucleo familiare potrebbe arricchirsi…” dissero le stelle stavolta quattro giorni prima che la moglie gli rivelasse di essere incinta; “Problemi rilevanti nel campo lavorativo” : ripeterono i suoi oroscopi nei giorni in cui la sua attività andò a rotoli; “Per chi ha l’ascendente in Sagittario è previsto un viaggio” : lui aveva l'ascendente in Sagittario, ed infatti emigrò in America.
Aveva vissuto per 21 anni in un tranquillo paesino della Campania, dove le persone si conoscono tutte a memoria, poi era stato costretto ad emigrare negli Stati Uniti per poter tirare avanti l’improvvisa famiglia che si era creato. Erano ormai 16 anni che viveva oltre oceano, e non vedeva i suoi cari da circa 9 anni.
New York, nonostante tutto, l’aveva adottato bene. Gli aveva dato qualsiasi cosa avesse bisogno per provare a vivere. Gli aveva dato anche la nostalgia, purtroppo, dalla quale mai fu in grado di guarire.
Stringeva la schedina e pensava a tutti i suoi patimenti. Aveva fatto Bingo adesso. E gli tremavano le mani. Quei sei numeri che sembravano sorridergli dalla pagina del giornale non potevano mai sapere quale importanza ricoprivano nella vita dell’uomo che avevano di fronte. Telefonò a casa, aveva la voce di chi si sveglia da un coma e si commuove anche di fronte a una tendina di ospedale. Tanti anni prima piangeva di dolore, in un America che pure non voleva fargli male. Adesso piangeva d’amore e di vita.
Cinquanta miliardi, un futuro che non faceva più paura, nuovi orizzonti che si spalancavano. Era tutto troppo bello per essere vero. Se fosse stato un sogno, sapeva che al risveglio la delusione avrebbe potuto ucciderlo. Ma non era un sogno. Quei numeri erano reali. A caratteri cubitali, in un anglo-americano ancora incomprensibile per lui, il giornale cercava di fare il giochetto della caccia al vincitore. Ma mai nessuno l’avrebbe trovato. Si sospettava, nell’articolo, che si trattasse di un imprenditore del Canada; qualcuno giurava che si trattava di una tranquilla casalinga della città. Nessuno poteva mai sapere che il vincitore era un emigrante italiano, che viveva da sempre con il buio nel cuore per cercare di guadagnarsi qualche spicciolo in attesa di un lavoro decente dal suo paese natìo. La moglie, entusiasta al punto da sentirsi male, organizzò una grande festa che avrebbe sorpreso il marito quando l’indomani pomeriggio sarebbe arrivato a casa. Il bambino era un angelo incontrollabile, che organizzava radunate di amici soltanto per raccontare a tutti che il giorno dopo avrebbe rivisto il papà.

Lui preparò la valigia, con il cuore che gli tremava. Non era un uomo qualunque. Era uno sfigato che aveva fatto Bingo. Aveva già prenotato l’aereo per il giorno seguente, tra meno di 24 ore avrebbe riabbracciato il suo mondo. Era lunedì, e pensò bene di comunicare il suo licenziamento alla ditta dove lavorava. Avrebbe dovuto dare gli otto giorni, ma i datori di lavoro lo volevano in fondo bene, gli erano molto affezionati, e non vollero infierire o complicare in alcun modo una vita che già era stata sufficientemente ingiusta con quell’uomo. La schedina l’adagiò nel portafoglio, doveva sentire sempre addosso il profumo inebriante di quel pezzetto di carta che aveva ridato colore ai suoi giorni, che lo aveva catapultato sulla terra.

Andò a letto e gli scorsero davanti tutte le immagini di un passato che gli aveva soffocato l’anima. Quella sera di tanti anni fa che dovette preparare di corsa i bagagli e scappare dalle sue cose più care. Quell’aereo che quella sera sembrò volare soltanto per lui, come se tutti gli altri fossero solo passeggeri di sostegno, ad assistere un uomo che assumeva l’aspetto del suo stesso fantoccio. Quella donna all’aeroporto che stringeva a se un batuffolo di dieci mesi, cercando in esso il supporto per non farsi travolgere dalla struggezza di un decollo che ti fa sparire insieme alle nuvole. Quel viaggio interminabile, in quel cielo che non sembra più l’amico di tante notti e ti fa sentire come una foglia di niente sospesa nel nulla. Quell’impatto gelido con quella città straniera, con quella gente che lo guardavano come si guarderebbe un gatto tra cento leoni. Ripensò a quel gatto. A quei cento leoni. Alle bastonate. Ripensò al Bingo. Sorrise. La vita gli ridava tutto ciò che gli aveva tolto, aggiungendogli addirittura un premio come per scusarsi. Ripensò anche a quell’oroscopo. Era l’unica macchia nera tra tanta luce. Eventi negativi. Pensò che forse si riferiva a quella litigata che aveva avuto con un collega pochi giorni prima. Cercò di associarlo a quello, ma sapeva bene che era soltanto un modo per continuare a rispettare quell’idea che aveva da sempre avuto dell’influenza delle stelle sulle persone. Gli venne il desiderio, come spesso gli veniva, di guardare le stelle dalla propria finestra. Non brillavano un granché, ne rimase deluso. Era il suo giorno, ma le stelle tacevano. Era un perdente che vinceva. Un cameriere che entrava in salotto. Un nano tra i giganti. Era uno che aveva fatto Bingo. Ma le stelle continuavano a tacere. Pensò che la sua vera festa sarebbe stata il giorno seguente, quando avrebbe toccato con le mani (e non più solo con l’anima) la meravigliosa famiglia alla quale egli era strafelice di appartenere. Si organizzò finalmente per dormire, lo fece, ma quella notte ebbe uno strano sogno: arrivò tardi all’aeroporto, perse l’aereo e lo guardava in lontananza mentre decollava. Dopo circa una ventina di secondi, uno spettacolo spettrale: l’aereo perdeva paurosamente il controllo e precipitava. Uno schianto clamoroso.
Tutti morti. Eccetto lui, che aveva perso l'aereo.

Si svegliò con ancora addosso l’agitazione dell’incubo avuto. Erano le sei. Non aveva perso alcun aereo. Non era precipitato alcun velivolo. Non era morto nessuno. Ma il tremolio l’avvertiva ancora. E forte. Qualche tassello forse tornava al proprio posto. L’incubo, l’evento negativo, l’oroscopo infallibile. Era inconsciamente soddisfatto del fatto che l’oroscopo volesse avvertirlo. Qualche giorno prima non avrebbe dato grande importanza a un rischio così remoto, ma ora si sentiva in dovere di proteggere la sua vita a doppia mandata. Ora che doveva recuperare tutto il tempo perso non poteva permettersi il lusso di morire. Il viaggio era prenotato per le nove e trenta. Sotto la doccia decise che l’avrebbe rimandato alla prossima settimana, quando l’effetto dell’oroscopo sarebbe andato via. Con cinquanta miliardi di lire in tasca, la nostalgia d’altronde fa meno male e la moglie avrebbe senz’altro atteso questi ultimi cinque giorni senza particolari traumi, a maggior ragione dopo averne ascoltato le cause.

Convenne che la mattinata, che gli era a questo punto avanzata, era giusto sfruttarla in qualche modo, magari godendosi qualcosa di quella città che aveva sempre avuto gli occhi di un padrone amico. Amico, certo, ma sempre padrone. Raccolse tutti i risparmi che aveva accumulato negli anni e decise di vivere New York sotto un altro aspetto. Le strade gli apparivano meno fredde, la gente più cordiale, i negozi più umani. Decise di andare a spendere qualche dollaro importante in quei grossi grattacieli commerciali situati al centro della city. Non gli sembrava vero in ascensore. Anche lui era un personaggio di quella titanica galleria di commercio. Si compiacque ancora una volta con se stesso, per la scelta che aveva avuto nel rimandare il viaggio: “Il mio oroscopo non si è mai sbagliato”, pensava tra se e se riandando con la mente al suo aereo precipitato in un incubo che sapeva tanto di presagio. Aveva riafferrato la vita con la coda, e non poteva mica bruciarla adesso. Passeggiava tra quelle vetrine buttando di tanto in tanto l’occhio alla finestra per osservare la città che si svegliava e che gli sembrava piccolissima da lassù. Si sentiva fortissimo, invincibile, immortale.
Si sentiva un uomo che non poteva morire. Adesso no. La fortuna aveva finalmente deciso che non poteva più continuare in quel modo. Aveva tanto sofferto. Saliva le scale e non si sentiva più un mendicante in quel paradiso commerciale.
Era martedì mattina, settembre era iniziato da una decina di giorni, i commessi già sorridenti e in forma di buon’ora dimostravano che era un giorno come tanti. Tutto sembrava però scorrere lentamente, troppo lentamente. Come se il tempo si fosse fermato in onore di un uomo che aveva fatto Bingo.
Sembrava tutto fermo, poi fu tutto veloce.
L'allarme, le urla della gente, l’aggroviglio umano, gli occhi di terrore, un aereo troppo vicino, lo schianto, un boato, le fiamme.
Poi il silenzio soffiò sulla polvere.


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L'UOMO NUDO

Si era ritrovato, senza sapere come, nel mezzo di una nebbiolina verdognola e luminescente, che gli dava un piacevole senso di leggerezza e di esultanza.
Intorno non riusciva a vedere nulla. Ma più che vedere o non vedere si accorse di percepire dentro di sé ciò che lo circondava.
Istintivamente provò ad osservare le proprie mani, ma non le trovò, eppure sentiva di possederle; anche i suoi piedi, e le gambe, non c'erano più. In un attimo si rese conto che quello che era stato tutto il suo corpo, era diventato altro da lui ed era sparito, come qualcosa di inutile.
Ma la scoperta non lo angosciò. Come se fosse preparato ad un evento simile.
Eppure lui era lì, esisteva, e si sentiva di esistere. Pensava. Rifletteva. Anzi era lui stesso il suo pensiero. Cercò di ordinare le idee. Di ricordare cosa fosse accaduto.
Gli venne alla memoria sua madre, quando gli raccontava di come i suoi strilli notturni di neonato avevano salvato l'intera famiglia dall'ossido di carbonio che si liberava da un braciere acceso.
Adesso ricordava.
I mandorli, quell'anno, avevano dato frutti abbondanti. Lui ne aveva raccolti in quantità ai piedi degli alberi, durante le sue passeggiate solitarie, nelle fresche albe estive.
I gusci vuoti, durante la stagione fredda, sarebbero diventi un'ottima brace.
Era assai intristito in quella piovosa giornata autunnale, mentre preparava il braciere di rame.
Aveva voglia di chiudere. Di smettere di cercare ciò che sapeva non avrebbe mai trovato. Era stanco di discutere, di parlare, di sforzarsi di apparire persuasivo, di comunicare con tutto quanto era fuori di lui.
Una promessa, udita molto tempo prima, di profonda comunione tra gli esseri umani, era stata disattesa. L'oggetto della sua fede, la sua Utopia, era crollato. Ed era stanco di aspettare ancora.
Aveva predisposto i gusci a formare un bel mucchio al centro del braciere; come in un rito propiziatorio, aveva versato qualche cucchiaio d'alcool nel mezzo e aveva acceso un fiammifero.
Nella penombra della camera una fiamma allegra e azzurrina guizzò all'improvviso, saltando qua e là nel mucchio, mentre un profumo acre si spandeva
attorno.
Lui osservava, accovacciato, la scena, sentendo il calore delle braci sul viso, e traendone come un senso di benessere.
Lentamente cominciò a respirare i vapori che provenivano dalla carbonella odorosa.
Sentiva la testa vuota, intorpidita, mentre una dolce sonnolenza lo avvolgeva delicatamente.
Si vide appisolato, con la testa china sul petto, respirare lievemente, poi più nulla...
Adesso udiva una voce in lontananza. Qualcuno lo chiamava; si rivolgeva a lui, quasi con un dolce tono di rimprovero.
"Non hai saputo attendere", gli diceva la voce, "hai avuto sempre fretta nelle tue cose. Fretta di finire per vedere cosa c'è dopo. Fretta di conoscere. Fretta di capire.
I tuoi tempi non sono i tempi dell'universo.
Ma adesso vieni. Acquietati. Riposati.
Per te il tempo si è fermato".
Ora si sentiva, come attratto, risucchiato dolcemente, verso un punto imprecisato di quell'orizzonte uniforme e indefinito.
Si rendeva conto di perdere gradualmente la sua individualità, e di diventare al tempo stesso parte di un Pensiero Totale, anzi di diventare lui stesso il Pensiero Totale, perché adesso non c'era più distinzione. Non c'erano più maschio e femmina, come ai tempi della Creazione, ma erano tutti in Tutto.


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Le fotografie

Aprì un cassetto del tavolo. In un angolo c’era un pacco di lettere. Ne prese una a caso, aprì con delicatezza la busta, ne estrasse il foglio: una piccola foto dai colori sbiaditi scivolò sul tavolo. Riconobbe l’immagine e la scrittura: piccola e nervosa, ma ordinata. Incominciò a leggere. Ben presto sul suo volto si alternarono luci ed ombre: il sapore dolce del passato risaliva alla sua memoria. Risentì il turbamento inaspettato e profondo che l’aveva colto quel pomeriggio lontano in cui era andato a farle visita. Era dagli anni di scuola che non si incontravano. Nel porgergli la mano ella l’aveva trattenuta un attimo fra le sue, mentre gli diceva con tono profondamente affettuoso: "Come sono felice di vederti". Le incertezze, i timori dell’agire, l’ansia della risposta, i moti del desiderio e soprattutto la sera in cui, tacendolo, le aveva rivelato il suo sentimento, riaffiorarono alla mente di Nino nei minimi particolari. Come illuminate da un lampo, ai ricordi si associavano le immagini di loro due in un flashback serrato, a tratti quasi reale, corporeo. Anche allora era una sera di primavera, pensò, ma allora, non gli rispondeva il vuoto della passione.

Dopo quella volta, si erano ritrovati insieme ogni pomeriggio per preparare qualche esame universitario. Seduti fianco a fianco alla scrivania, Nino discorreva di glottologia, ma mentalmente si chiedeva come e quale approccio tentare, eludendo la vigilanza di Rosaria, sua sorella, che era solita installarsi di fronte a loro. Una sera, finalmente, ebbe a disposizione l'occasione cercata. Rosaria fu chiamata dalla madre in cucina per il caffè.

Come dalla glottologia il discorso fosse scivolato sull’invito ad andare a ballare insieme, ora l’aveva dimenticato, ma la tensione che lo aveva colto mentre le parlava ripercorse tutto il suo essere. Per acquistare sicurezza, si era alzato in piedi, ora sbirciando la strada attraverso la finestra alle loro spalle, ora la porta dalla quale temeva riapparisse sua sorella. Non gli era chiaro cosa sentisse, né voleva assodarlo. Era soltanto cosciente di un senso di appagamento perché poteva vederla, parlarle, e nello stesso tempo turbato da un’inquietudine nervosa, finanche puerile, si rimproverò. Cercò di pensare ad altro, ma per quanto facesse, tutto se stesso ritornava a lei. Sotto di lui intravedeva i suoi splendidi capelli biondi, lunghi fino alla vita, ricoprirla come un manto. Fu un attimo e il mondo non ebbe più suoni, né immagini se non lei.

Non resistette. Con una mano sfiorò delicatamente una ciocca di quei fili dorati e le mormorò qualcosa di banale, col fiato sospeso. Si attendeva un’occhiata severa. Sapeva che non aveva mai permesso eccessi di familiarità, finanche verbale, ad alcuno della classe, pur dimostrandosi sempre cordiale e socievole. Invece lei sollevò un attimo il capo verso di lui, le guance una vampa di fuoco, per poi abbassarlo mentre un sorriso d'una tenerezza infinita le illuminava il volto.

Tornò a sedersi ancor più confuso e, dopo aver acceso una sigaretta, appoggiò i gomiti sul bordo della scrivania. Restò così alquanto con aria apparentemente pensosa a seguire le spirali di fumo, poi girò il volto verso di lei senza parlare. Dopo qualche attimo, come alludendo a una questione già trattata che solo loro due conoscevano, le domandò sottovoce esitando, staccando le parole:

"Allora, è sì?… verrai?".

"Ah!… Penso di sì", rispose ella, senza guardarlo, imitando in una sorta di complicità il suo tono sommesso. "se riesco a convincere mia sorella ad accompagnarmi… Se viene anche lei, i miei non si opporranno…". Un vago sorriso le illuminò di nuovo il volto.

Così erano andati ad un night con sua sorella e suo fratello.

Era bellissima quella sera!

Sedettero tutti insieme ad un tavolo in penombra scambiandosi frasi insignificanti, sbirciando all’intorno quanti erano presenti nel locale con finto interesse, perché la mente in realtà era attenta ad ogni gesto, ad ogni parola di loro due. Gli sguardi s’incontravano rapidi, si sfuggivano, per poi tornare ad incontrarsi, a percorrersi di nascosto, in un continuo vedersi senza guardare.

Ad un certo momento nella sala si diffusero le note di "Tu sì na cosa grande". Sapeva che ella amava quel brano.

"Balliamo? ".

Così dicendo, si alzò, la prese per mano e la condusse verso la pista da ballo. Iniziò a danzare con un po’ d’incertezza perché temeva una scenata della sorella, la quale, frattanto, si accorse, non solo rifiutava gli inviti di suo fratello, ma cercava di non perderli di vista. Per fortuna, le luci era attenuate ed il lato dov'era il complesso musicale, era alquanto distante dal punto dov’era il loro tavolo. Ballando la strinse un po’ a sé. Ella non cercò di sciogliersi, anzi gli appoggiò il capo sulla spalla fremendo. Stordito cominciò a baciarle teneramente gli splendidi capelli biondi. D’un tratto la sentì prorompere in un pianto inaspettato a stento soffocato, mentre all'orecchio prese a dirgli fra i singhiozzi: "Nino… Nino… non mi illudere… non mi illudere!…". Allora le sfiorò con le labbra gli occhi pieni di lacrime, mentre il cuore gli batteva a martello. "Vera!", le sussurrò con impulso improvviso. "Ti voglio bene, Vera!...".

E senza badare più alle altre coppie, che giravano attorno a loro, continuando a ballare, tenendole stretta una mano, le confessò con un calore di cui egli stesso non si credeva capace, tutto ciò che nascondeva, tutto ciò che a nessuno confidava! Parlava rapido, senza fermarsi, sfiorandole con le labbra ora il viso, ora i capelli, quasi scusandosi di aver tanto esitato.

Ella lo ascoltava attenta, trepidante... Sulle prime, in silenzio... Ma ben presto questa sensazione si dileguò, cedendo il posto ad altre emozioni: il sentimento d’amore svelato le riempì l'anima. "Nino", gli ripeté incerta, "Non mi ingannare… Ti prego, non mi ingannare…". Sollevò il volto verso di lui, gli occhi le luccicavano...

Egli tacque, la guardò smarrito, gli parve di vedere per la prima volta quel viso così conosciuto, che ora gli era divenuto così caro... Le sfiorò le labbra in un rapido bacio.

"Oh! come ho fatto bene a dirti tutto!", riuscì appena a sussurrare.

"Non mi ingannare, ti supplico…", ripeté ella ancora una volta a bassa voce. Anche a lei mancava il respiro. "Tu sai che anch’io aspettavo questo momento!…".

Ancora un'altra parola, e le lacrime le sarebbero sgorgate di nuovo dagli occhi. Tutto il suo essere si disfaceva come cera. Il cuore di Nino batteva come impazzito; immerse il volto nei suoi capelli, chiudendo gli occhi per non contenere altro in sé. Rialzò la testa, incontrò gli occhi di lei che lo fissavano...

Altrettanto bene, rammentava l’eccitazione dell’attesa del primo incontro da soli. La notte insonne, poi la mattinata che non passava mai, poi un’ora, poi un minuto, e finalmente eccola davanti a lui, rossa in viso ma tranquilla, negli occhi una luce viva, sulle labbra un sorriso tenue ma felice. Ambedue avevano taciuto per qualche istante, ciascuno assaporando sul volto dell’altro la gioia di ritrovarsi.

Si recarono al Lago di Lucrino. Passeggiarono lentamente nel lungo viale di pini che conduce allo specchio d’acqua, immersi nella tenerezza del sentimento che li univa. Una brezza di vento scuoteva ogni tanto le ampie chiome dei pini attraverso le quali la luce penetrava formando chiazze mobili di ombra e di sole che sfioravano, saltellando, i loro vestiti in un continuo gioco rapido e mutevole.

Erano trascorse solo poche ore da quando si erano visti, ma esse erano state sufficienti a rendere il loro animo di nuovo inquieto; a far loro desiderare l’aria libera e la solitudine per ripetersi le frasi che bastano a due che si amano, per abusare della parola "sempre", altrimenti il loro fuoco si sarebbe mutato in veleno.

Le circondava la vita con il braccio destro. Lei gli poggiava di tanto in tanto il capo sulla spalla, sfiorandogli le labbra con la massa d'oro dei suoi capelli. A tratti stringeva la sua mano fra le sue. Tacevano. Il loro sguardo pensoso accarezzava le loro ombre allacciate.

Continuando a stringerle la vita, si appoggiò al tronco d'un pino, e stette ad aspettare. Fu lei per prima a rompere il silenzio. "Mi vuoi bene?…", dalla voce trapelava un turbamento profondo, "per sempre?…". Restò a lungo senza rispondere. In quel momento l’avrebbe seguita, senza rimpianto, dovunque ella avesse voluto. Vera lo comprese, ed ebbe un sospiro di sollievo, di appagamento pieno. Alzò il viso verso di lui e Nino la baciò.

Fu là che per la prima volta si baciarono.

Qualche ora dopo presero la via del ritorno pensosi, ma placati. Di tanto in tanto si fissavano negli occhi, si sorridevano al ricordo delle parole che si erano scambiati, perduti nel tepore dei loro corpi. L'erba si fletteva dolcemente sotto il loro passo leggero; il fogliame risuonava sommesso al soffio fresco della brezza che s’intrufolava fra i pini. Andavano, l'uno e l'altro godendo della tiepida aria primaverile, dei giochi capricciosi della luce e delle ombre; entrambi sognando di percorrere insieme, come quel sentiero, la strada dell’avvenire oscuro, poiché avevano dato vita al loro desiderio.

"Fu così, proprio così che ci accadde", mormorò Nino, sollevando il capo dal foglio e portando lo sguardo sull’immagine che aveva davanti.

"Tu puoi far felice una donna", gli aveva sussurrato un giorno per telefono la voce trepida di Caterina, che, come altre, si era affacciata alla porta della sua giovinezza. Ma se vi fosse riuscito Nino non sapeva giudicarlo. Di certo però, era cosciente d’aver amato e d’essere stato riamato, d’aver sofferto e d’aver inferto sofferenze. Ed avvertiva che, come aveva detto qualcuno, già il fatto che una donna l’avesse accolto con gioia quand’era venuto al mondo, che un’altra l’avesse stretto fremendo tra le sue braccia e che una terza l’avrebbe forse pianto, costituivano delle gemme preziose.

Perché si fosse allentato il suo legame con Vera, solo ora in parte lo capiva, ripercorrendo le fasi di quell’amore. Aveva desiderato ed ottenuto un sogno. Aveva amato un sogno. "Ma l’Amore vero non è forse un sogno?", si domandò, "E come può un’essenza così fragile e impalpabile qual è un sogno vivere nella banalità del quotidiano. Può sopravvivere - talora a lungo - nella concretezza, ma finirà per trascinarsi appesantito, affievolito, sfiorito. Morire, però, mai, poiché l’Amore conosce stanze segrete del cuore ove annidarsi per sempre.

"Fu così…", – ancora una volta gli risuonarono dentro queste due parole che in quattro e quattr’otto volevano risolvere tutt’un percorso di vita – fu così che nel suo stentare era entrata Giuliana.

Due esseri così diversi, pensò Nino, eppure tanto uguali nella profondità del loro sentimento. La prima bionda, la seconda bruna. La prima di un’avvenenza smagliante, ma serena, la seconda di una grazia carnale, tentatrice. L’una, limpida nel suo procedere, sicura del suo essere donna, appassionata e ardente, ma casta per forza di carattere. L’unione di due esseri era per lei qualcosa in più di un’avventata mescolanza tiepida di umori. L’Amore aveva un valore da non avvilire nel buio inquieto di un’auto o nel mercato d’una stanza ad ore, ma da gridare al mondo lecitamente, orgogliosamente. L’altra, invece, si mostrava ora chiusa e impenetrabile, tormentata da pulsioni e turbamenti improvvisi, malamente mascherati da una condotta talvolta fin troppo disinvolta; ora invece tenera all’eccesso, quasi che volesse offrire un tacito indennizzo, per le sue stravaganze. "Ma io che conoscevo la vera natura del suo animo come i suoi abbandoni sensuali, non me ne preoccupavo. Mi fidavo di lei", rifletté, "perché sapevo che ero io a regnare nel suo cuore. Anzi, le frequenti liti e riconciliazioni, mi sembravano la prova che non poteva stare senza di me. Non ne ero innamorato, è vero, ma le portavo affetto".

Ad ogni modo "Così, fu così", che un amore s’era logorato nella stanchezza del quotidiano, l’altro nell’esuberanza della passione. Come si disfaceva nella pace della sera il suono delle campane della sua infanzia.

E poi?

E poi fu la voce esitante e inquieta di sua moglie che lo strappò bruscamente dalle sue visioni. "Non vieni a riposare?… è tardi… sono le tre… Domani è giorno di lavoro!"

"Sì, un giorno come tanti!…", ripeté Nino a se stesso, seppellendo con cura di nuovo nel tiretto quei brandelli struggenti di passato. "…o forse domani è… come diceva quell’attore in un vecchio film?… "Domani è un altro giorno!"


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NUDITA’

Sono in galera e dispongo di pochi libri.

Per fortuna alcuni libri li ho letti quando ero libero.

Sono sottoposto al carcere duro e cioè ad una disciplina così sottile, raffinata, perversa, da far impallidire il supplizio più atroce.

Sono stato definito socialmente pericoloso e sono in attesa di giudizio.

Per la verità non mi ero avvilito perché ero convinto della presunzione di non colpevolezza, di una Giustizia serena e di un’amministrazione carceraria responsabile, ma anche umana.

Non potevo mai immaginare che cosa mi aspettasse.

Sono continuamente in lotta contro quelli che sono diventati i miei nemici di sempre: gli agenti di custodia.

Pochi giorni or sono mi è stata negata la biancheria intima (mutande, calzini).

E’ vero che sono imputato di fatti gravi; ma ero fermamente convinto che la mia igiene personale riguardasse quel minimo di cura del mio corpo che nulla avesse a che vedere con la mia pericolosità sociale.

Ho pensato, anche per illudermi, che si trattasse di un episodio isolato.

No! Mi ero sbagliato!

Quando pochi giorni or sono dovevo comparire in video – conferenza, pur avendo subito le perquisizioni di rito, mi è stato detto che dovevo calarmi i pantaloni.

Ho chiesto spiegazione per una richiesta che trovavo insolita, ma gli agenti di custodia mi hanno risposto che era un atto dovuto se avevo interesse a partecipare all’udienza.

Ho obbedito!

Non potevo mai pensare che, una volta calati i pantaloni, mi facessero abbassare anche le mutande, mentre un dito esplorava il mio ano con una pratica che oscillava tra rito e compiacimento da parte dell’operatore.

Mi ribellai! Gridai! Fu tutto inutile!

Questo esercizio, così umiliante, fu praticato altre volte sul mio corpo.

Da allora ho capito che sono un detenuto ai confini della vita; sradicato dalla mia identità; un miserabile oggetto; un fantasma; un io senza io.

Quando ero libero, mi dedicavo poco alla mia famiglia.

Nei confronti di mia moglie ero una maschera, e, con i miei bambini ero assente; un padre che era tale solo per lo stato civile.

Ma, durante quell’unico colloquio mensile che avevo ed ho con i miei familiari, sotto la diretta sorveglianza degli agenti di custodia, e, con quel vetro divisorio, che è una sorta di separazione fisica dagli affetti più cari, io, definito un delinquente, un mostro, incominciai ad avvertire con me stesso un disagio psichico.

Poi con il ripetersi di quel colloquio a distanza, notai un giorno che la mia bambina, di tenera età, dapprima tentò di baciarmi comprimendo il suo visetto contro il vetro divisorio, poi, si agitò fino al punto di scoppiare in un pianto così isterico e convulso che mia moglie ritenne di allontanarsi con lei.

Sarò un delinquente, ma per tutto il giorno mi sentii un abbozzo di uomo e di padre e scrissi a mia moglie, chiedendole di non portare più la piccola al colloquio perché soffriva.

Mia moglie mi informò che la bambina era affetta da crisi epilettiche e che si era chiusa in un mutismo cupo.

Il medico le aveva comunicato che mia figlia poteva migliorare le sue condizioni di salute in un colloquio diretto con me e, cioè, ricevendo carezze e parole di conforto da me senza quel vetro divisorio che la scioccava e mandava alla deriva il mio io.

Ebbi vergogna di me!

Avvertii, al di là dei fatti che la Giustizia mi contestava, di essere un vile nei confronti della mia bambina che, per come si era ridotta, poteva ormai essere sostenuta solo dalle mie carezze, dal mio amore.

Gli agenti di custodia, il Ministro, la Corte Costituzionale, i medici, non vogliono sapere quanto siano importanti gli affetti familiari e come siano tante volte capaci di trasformare un delinquente in un osservante delle leggi.

Avevo scoperto, grazie a quel corpicino indifeso di mia figlia, una ragione della vita che mi era completamente sfuggita e che poteva cambiare in radice me stesso: la mia famiglia.

Dissi a me stesso: perché non posso cambiare? Perché non posso diventare un altro? Perché un giorno non posso essere come voi?

Volli cambiare condotta in carcere.

Cambiò il mio cervello.

Incominciai ad osservare le norme penitenziarie: diventai rispettoso, ossequioso, nei confronti dei miei custodi. Chiesi di andare in chiesa; di lavorare; di istruirmi.

E mentre avvertivo dentro di me questo diritto alla metamorfosi, mi fu notificato altro decreto ministeriale nel quale leggevo, con mio sommo stupore, che la buona condotta carceraria non è segno di alcun ravvedimento.

Anzi è il vero alibi del camorrista per cui lungi dal vedere riconosciuto il mio cambiamento, proprio in quanto osservante delle regole penitenziarie, ero ancora più pericoloso.

Allora compresi che il decreto ministeriale non solo è lo stesso per tutti i detenuti, ma è il luogo di tutti i racconti possibili.

Compresi che nel carcere non entrano né la legge né il cuore.

Ma soprattutto divenni sempre più saggio e dissi a me stesso che a nessuno stava a cuore la mia risocializzazione.

Ho perduto il mio tempo.

Nessuno vuole che io cambi.

Ma vi è di più!

Il carcere è un territorio nel quale il detenuto è abbandonato a se stesso; un luogo nel quale si perfeziona la sua delinquenza.

Scrissi al Ministro, a tutte le Autorità.

Mi ignorarono tutti.

Pensai di rifare l’ordine delle mie esigenze e mi rivolsi al mio avvocato al quale chiesi tutela per quanto avveniva in carcere e per la mia difesa.

Il mio avvocato, il più vanitoso di tutti, interpretava le mie esigenze con un tono oracolare, con aggettivi rassicuranti e mi faceva comprendere che la sua bravura si sarebbe misurata nella difesa.

Quando comparvi in video – conferenza per difendermi perché era incominciato il processo a mio carico, bastarono poche udienze per comprendere che il mio avvocato gestiva solo il suo vuoto nell’ignoranza completa degli atti.

Fu per me un raddoppiamento di solitudine.

Mi innamorai del mio abisso nel quale mi facevano precipitare l’angoscia del carcere duro e quello della difesa. Mi sentii braccato!

Pensai al ritornello perverso del decreto che mi accerchiava come un fantasma, un affatturamento, e mi sussurrava all’orecchio: " Pentiti! Se ti penti cambia tutto!".

Sprofondai in una disperazione insulare perché si trattava di pentirmi di ciò che non avevo commesso.

In una notte nella quale si confusero nella mia mente paure e speranze, le immagini della vita e della morte, levai la mano su di me con numerose coltellate.

Mi sono risvegliato in infermeria dove i medici mi hanno riscontrato allucinazioni emicraniche con perdite di memoria.

Ora con la passione dell’ignoranza potrò sopportare meglio il mio inferno.


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