venerdì 29 marzo 2024
Racconti di Natale

NATALE

Una sera illuminata dalla luna. L’abete addobbato di lampadine multicolori al centro della piazza, accanto ad un enorme ceppo, che brucia lentamente.

Un vento freddo, fine, che s’infila in tutti i pori, solleva miriade di scintille che spegne nei suoi vorticosi moti.

Tutti aspettano mezzanotte: chi intorno al ceppo che brucia in piazza, chi in casa seduto ad un grande tavolo, su cui le cartelle della tombola aspettano di essere riempite con ceci o lenticchie da mani sonnacchiose e fredde.

E’ Natale.

La gente è piena di gioia, per tradizione. Lo sono stati i padri, lo sono i figli; così, senza sapere perché, per il solo motivo che è festa, per il motivo che è Natale. Lo sono anche per Pasqua, per la festa del patrono, le Domeniche.

«Perché - penso, mentre lentamente attraverso la piazza - perché si deve essere felici nel giorno di Natale, di Pasqua, nelle Domeniche? I giorni sono sempre uguali, con il sole, il cielo, il mare, la luna, gli stessi visi, le stesse azioni...».

Entro in chiesa. I "picciotti" sono tutti affaccendati. Chi aiuta il pittore-scenografo, chi gli addobbatori, chi spazza, chi avvita lampade. Sono tutti amici miei.

- Ragazzi, se posso aiutarvi in qualche cosa...

- Oh, sei qui? Aiutarci? Tu? Vestito così?

- No, ragazzi, parlo sul serio...

- Lascia perdere, stiamo quasi per finire. Hai ‘na sigaretta?

- Fumiamo in chiesa, eh!

- Fumare soltanto? Dovresti sentire le parolacce ed anche i moccoli!

- E allora mi sapete dire perché state addobbando la chiesa? Perché ci sono stati tutti quegli spari oggi?

La lampada ad olio davanti al Sacramento sta quasi per spegnersi. Tremola un poco. Riprende a bruciare, azzurrognola.

Esco. Il ceppo adesso arde vigoroso in mezzo alla piazza tra un cerchio di ragazzi, urlanti.

Una zaffata d’aria calda mista ad un fumo di sigarette denso mi investe e mi toglie il respiro nell’entrare in un caffè.

Ramino, briscola, sette e mezzo. Questo è il Natale... Mi affretto ad uscire da quella bolgia puzzolente.

Mi dirigo al Circolo. Non è che qui l’ambiente, sebbene più tranquillo, sia molto diverso da quello di prima. Il fumo è spesso, da far venire le lagrime.

Qui sono più fini, giocano a poker: cip... tris... scala...

Il tempo scorre lentamente, poi, verso mezzanotte, tutti vanno via. Chi in chiesa per le funzioni, chi a casa a dormire.

Anch’io decido di andare a letto.

La luna si specchia sull’asfalto deserto e muto della strada. La gente fra poco andrà in chiesa, pregherà, si sentirà felice di vivere queste ore. Io, invece, mi rifugerò nel freddo delle lenzuola e cercherò di addormentarmi... indifferente alla gioia degli altri, che fu anche la mia... ma allora era l’infanzia, la fanciullezza...

Ma perché andare a letto? Non si può sciupare così una notte come questa che invita a ricordare momenti felici della nostra infanzia. Ritorno in piazza. La gente si è ormai avviata in chiesa, ed io resto solo col ceppo acceso.

Le faville che s’innalzano verso il cielo cominciano a prendere consistenza: persone e cose che sfumano nel tempo o che ancora si conservano nella memoria indimenticabili.

La mia vecchia casa... La prima stanza, molto grande, serviva da vestibolo, salotto e camera da letto. Il pavimento era di cemento; alle pareti l’umidità appendeva quadri in cui campeggiavano immagini mostruose dalla pelle verde. In un angolo vi era uno scaffale dal quale una radio, per diverse ore al giorno, spandeva musichette e comunicati commerciali. Sul secondo ripiano dello scaffale ogni anno si costruiva il presepe.

La festa cominciava il giorno dell’Immacolata: Come in tutte le novene, la messa veniva celebrata alle cinque del mattino, per permettere ai fedeli di poter andare a tempo a lavorare; e tutti, imbacuccati, aspettavano con ansia che il sacerdote alla fine delle funzioni pronunziasse i nomi di coloro che dovevano organizzare le novene di Natale: i galantuomini, le maestranze, i bordonari, i bottegai, le maritate, le vergini, i picciotti...

Iniziava allora la gara a chi facesse il miglior presepe. Tutti noi ragazzi ci riversavamo nei torrenti e nei boschi vicini a raccogliere musco e rami di asparago selvatico: l’uno per rappresentare la terra con i cespugli e gli alberi; gli altri per costruire quello che ancora non sono riuscito a capire cosa significasse: poteva essere la volta del cielo, perché vi era attaccata la stella con la coda; ma poi veniva ricoperta, come un tetto di una qualsiasi dimora, da batuffoli di cotone messi lì a fare la neve; oppure poteva essere la volta della grotta, ma al suo interno veniva costruita una grotta di sassi o di cartone, abbastanza grande da ospitarvi la stalla col bue, l’asino e la sacra famiglia.

Io toglievo da quello scaffale i giornali che vi si trovavano, preparavo quella volta di asparago, mi procuravo mattoni e pietre per fare le montagne, la ghiaia per le strade, la crusca per il deserto, pezzi di vetro e di stagnola per il lago e il fiume. Cosparso, poi, tutto di batuffoli di cotone e di farina, andavo a pescare la scatola di cartone dove, avvolte in carta di giornale, si trovavano i "pastori", le statuine cioè del presepe.

Giuseppe, Maria, il Bambino, l’asino, il bue, il pastore, le pecore, il pescivendolo, la lavandaia, il cacciatore con lo schioppo, il venditore di cocomeri e tutto quello che serve a formare le poetiche contraddizioni del presepe.

Quanti sacrifici per comprare le statuette! Il mio padrino di cresima, nell’approssimarsi del Natale, mi regalava ogni settimana una cinquantina di lire per comprare una pecora, uno zampognaro, un pescatore; e tutte le mance del mese di dicembre andavano a finire nelle tasche del venditore di statuette.

La stalla veniva sistemata al centro; il pastore, lo zampognaro e le pecore sempre in procinto di scendere dalla montagna; in un angolo, il freddoloso Gennaio si scaldava nel suo tugurio, accovacciato su di un braciere ed aveva per vicino di casa il venditore di cocomeri; il pescatore teneva perennemente l’amo nell’acqua e mai, a mia memoria, riuscì a pescare un pesce. Poi, la Notte santa, un pupattolo di cera veniva a posarsi sulla mangiatoia scendendo dall’alto per mezzo di un filo di seta e, per sette giorni, aspettava nella medesima posizione l’arrivo dei Magi.

Mozziconi di candela illuminavano la scena e, talora, appiccavano il fuoco all’infiammabilissimo asparago. Una volta vidi il mio capolavoro andare in fumo, mentre mia madre invano tentava di soffocare le fiamme. Annerite e bruciacchiate, le statuette passarono un Natale rigido e senza tetto.

Finiva sempre così, col guardare superficialmente e ironicamente il presepe. La mia gioia consisteva nel costruirmelo, nell’inventare nuovi paesaggi, nella ricerca di esotici motivi ornamentali.

Tuttavia il Natale aveva per me qualcosa di fascinoso, di misterioso, che mi teneva avvinto per un mese, che mi faceva partecipare della gioia comune. Ricordo le novene alle cinque del mattino, quando si usciva di casa avvolti in sciarpe e cappotti, silenziosi come tanti cospiratori; mi pareva di partecipare a delle avventure notturne e, sebbene queste si svolgessero sempre allo stesso modo, io vi trovavo ogni volta motivi nuovi. Il tramonto della luna e il sorgere del sole erano una meravigliosa esperienza che facevo tutte le mattine. Poi, la chiesa, addobbata secondo le condizioni di chi doveva pagare le spese di quella novena; quell’odore di fiori freschi e di incensi che mi portavano verso lidi orientali; i giochi d’ombra fra le arcate, le navate, le cappelle; lo schiarirsi continuo dei finestroni; i vecchi con le mani sulle ginocchia, la corona del rosario intrecciata con le dita, la testa reclinata, che s’addormentavano al suono dell’organo sognando forse di essere in paradiso neniati dal coro degli angeli.

Uno sparo, poi, facendo sobbalzare tutti, ci annunciava che le funzioni erano finite, mentre la voce delle campane si confondeva con il canto dei galli e l’abbaiare dei cani.

E’ costume trascorrere senza andare a letto la notte del ventiquattro dicembre; nel pomeriggio, intanto, altri spari ci avevano avvertito dell’arrivo del ceppo in piazza. Un autocarro, sovraccarico di ragazzini, bandiere tricolori, fasci di legna, due o tre abeti e di alcuni enormi ceppi, attraversava le strade principali del paese e faceva il suo ingresso trionfale in piazza. Un fisarmonicista spesso accompagnava, con allegri motivetti, il dissonante vociare dei ragazzi vestiti a festa.

La sera mi rifugiavo in casa, con le cartelle della tombola davanti, sbucciando mandarini e ruminando nocciole.

Diventato più grandicello, ebbi il permesso di trascorrere tutta la notte fuori di casa. Così ebbi modo di assistere ad interminabili partite di scala quaranta e di vedere svolazzare fogli da diecimila lire sul grande tavolo del baccarat, come se fossero stati carta straccia.

Spesso andavo a visitare i "picciotti" in chiesa, concentrati nei loro febbrili preparativi della Nascita.

Una volta, però, lasciai tutto questo e mi avventurai nelle strade assonnate del paese. Accompagnavo quattro suonatori che, con i loro strumenti moderni, dovevano imitare le ciaramelle. Le nenie natalizie ben s’accordavano alla serenità silenziosa del paesaggio notturno. Le note scure del clarinetto basso sottolineavano le ombre delle case prostrate sul selciato, come macchie d’inchiostro; la luna sorrideva con me alle stonature del flicornino, mentre si cominciavano ad aprire gli usci ed accendersi le luci delle case. Mezzanotte era ormai passata, le campane e le pseudo ciaramelle avevano dato la sveglia e tutti si intabarravano per andare ad assistere alla messa.

Prima di arrivare in piazza, i suonatori rimisero gli strumenti nelle valigette e partirono per andare a fare gli zampognari in un altro paese. Io restai solo per un poco, poi andai in chiesa.

Un paio di lampade rischiaravano appena qualche angolo; per tradizione, gli addobbi e le scene, usati da chissà quanti anni e conosciuti da tutti, si tenevano al buio per nascondere la sorpresa.

Le persone entravano sempre più numerose, portandosi dietro sedie e bambini piagnucolanti.

Brividi di freddo percorrevano la navata centrale. Aspettai che la messa iniziasse e che al presepe costruito sull’altare maggiore venisse tolto il sipario che lo nascondeva, e che la neve di carta tagliuzzata cadesse sulle teste dei devoti e suonassero le campane...

Il ceppo si è ridotto a metà e comincia a fumare. Ho il davanti caldo e la schiena gelata. Meglio andare a letto prima che mi vengano i reumatismi. Fra poco la gente si riverserà in chiesa, le campane squilleranno, e diecine di grossi petardi scoppieranno cupamente...

Do una pedata al ceppo e mille scintille si sollevano rincorrendosi e spegnendosi una dietro l’altra...


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Uno dei Re Magi

No, non crediate che io sia un mago da fiaba. Non ho bacchetta fatata né faccio incantesimi. Nel nostro paese, che è la Persia, mago vuol dire sapiente, cioè studioso. Anche noi avevamo molto studiato, specialmente sul libro chiamato Avesta.
Le nostre spalle si erano incurvate su quel libro. Le nostre barbe erano diventate bianche nello studio.
Il libro annunziava la venuta di un "saggio signore o, di un "vittorioso Liberatore" degli uomini.
Prima di noi, generazioni e generazioni di sapienti avevano atteso questo miracoloso personaggio, ma sempre invano.
Ormai eravamo vecchi, e temevamo di dover chiudere gli occhi senza aver visto il Liberatore. Guardavamo il cielo, in attesa di un segno annunziante la sua venuta.
Ed ecco una stella di straordinario splendore farci segno di seguirla.
Partimmo felici, montati sulle migliori cavalcature, vestiti riccamente con le corone in testa e i doni in mano.
Non sarebbe stato conveniente presentarsi a quel gran personaggio senza regali. Uno di noi prese una coppa d'oro simbolo di potenza regale, un altro prese un'anfora piena d'incenso simbolo d'onore sacerdotale, l'altro ancora prese un calice di mirra simbolo di redenzione.
La stella ci faceva da guida. Nessun corteo aveva mai potuto vantare un simile battistrada. Valicammo monti, attraversammo pianure, guadammo fiumi e incontrammo città, senza che la stella accennasse a fermarsi.
Giunti a Gerusalemme, il re Erode fu avvertito del nostro arrivo. Seppe che cercavamo il Re dei Giudei e chiese ai suoi sapienti:
- Dove dicono i libri che deve nascere il Redentore?
Anche gli ebrei avevano un libro chiamato Bibbia, dove era annunziata la venuta del Salvatore. Perciò i sapienti risposero al re Erode: - Betlem sarà la sua culla.
- Andate a Betlem, - ci disse Erode - e al ritorno mi narrerete di lui.
Riprendemmo a viaggiare, e la stella viaggiava con noi, finché non si fermò sopra una povera stalla. Trovammo il Bambino fasciato e deposto nella mangiatoia, fra due animali. Quale abbandono e quanta miseria! Il Re del mondo giaceva su paglia trita, senza corte d'attorno e senza onori.
A quella vista, la nostra sapienza si confuse. Avevamo sperato di trovare un potente Re in una reggia sfarzosa, in mezzo a ricchezze e a splendori.

Vedendo tanta umiltà ci sentimmo umiliati. Mettemmo fuori i nostri doni: oro, incenso e mirra. Il Bambino ci guardò come per accettarli, ma noi sentimmo che non bastava offrir quei soli doni. Egli non s'appagava né d'oro né d'incenso né di mirra. Voleva insieme il nostro cuore, e lo voleva ripieno di quella ricchezza che non s'estingue mai, e che si chiama Amore.
A questo Amore, che si traduce in Carità, la nostra scienza di vecchi sapienti non aveva mai pensato.
Ce lo insegnò un bambino, nato da poco, in una stalla, con un sorriso che ringiovanì il nostro vecchissimo cuore.


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Il vecchio Moisè

Quand'ero ragazzetta, avevamo in casa nostra un vecchio servo della Barbagia chiamato Moisè. Era il suo vero nome? Non credo; forse era un soprannome, perché realmente il vecchio rassomigliava al profeta Mosè, alto e bruno in viso com'era e con una lunga barba a riccioli; o piuttosto perché fra le altre cose egli sapeva fare certi scongiuri contro il malocchio, contro le malattie del bestiame, contro le formiche che rapiscono il grano dall'aia, contro i bruchi, le cavallette e i vermi, contro le aquile per impedir loro di rapire i porcellini, gli agnelli ed anche i bambini; e in quasi tutti questi scongiuri (in dialetto chiamati verbos , cioè parole misteriose) c'era un'invocazione a Mosè.
Moisè era vecchio ma robusto ancora e lavorava tutto l'anno; d'inverno custodiva i branchi di porci e di maialini che pascolavano e mangiavano le ghiande su per i boschi d'elci del monte Orthobene; ma tornava in paese per le grandi solennità, e specialmente il Natale voleva passarlo in casa dei padroni. Non era vecchio decrepito, volevo dire, ma a sentirlo parlare pareva che egli avesse almeno due millenni; tutte le storie che raccontava risalivano agli «antichi tempi» quando Gesù non era nato ancora ed il mondo era popolato di gente semplice ma anche di esseri fantastici, di animali che parlavano, di diavoli, di nani, di bìrghines , vergini che eran buone coi buoni e cattive coi cattivi e passavano il tempo a tessere porpora ed oro.
Quando Moisè tornava a casa per Natale noi ci affollavamo attorno a lui per sentire le sue storie. Egli sulle prime si faceva pregare; preferiva insegnarci ad arrostire tra la brage le ghiande, che si gonfiavano e diventavano rosse e saporite come castagne; e ci diceva che in certi paesi della Sardegna si fa anche il pane di farina di ghiande, al quale si mescola una certa argilla che lo fa diventare più saporito e consistente; poi a furia di preghiere e di occhiate supplichevoli, si riusciva a fargli raccontare qualche storia.
Seduti intorno al camino ove ardevano interi tronchi di quercia o intere radici di lentischio, nere e aggrovigliate come teste di Medusa, noi ascoltavamo attentamente. Era presto ancora per la grande cena, che si fa dopo il ritorno dalla messa di mezzanotte, alla quale noi però non assistevamo perché la notte di Natale è quasi sempre rigida e nelle notti rigide i ragazzi devono andare a letto; ma per noi e per tutti quelli che volevano mangiare senza profanare la vigilia veniva preparato un piatto speciale, di maccheroni conditi con salsa di noci pestate, e con questo e con le storie di Moisè ci contentavamo. Egli dunque soffiava sul fuoco con un bastone di ferro; un bastone bucato che era poi una vecchia canna d'archibugio, e raccontava. «Quando nacque Gesù, - egli diceva, - la gente era buona ancora e senza malizia; ma appunto perché gli uomini eran ingenui e avevan paura di tutto, il mondo era infestato di esseri maligni. Allora esistevan le cattive fate, che potevan cambiarsi in animali e spesso andavano nelle case, sotto forma di gatti, di cani o di galline, e vi portavano sventura; allora esistevano i cavalli verdi, che portavano i proprii cavalieri nei precipizî; esistevano i vampiri, esistevano i serpenti e specialmente uno terribile che si chiamava Cananèa ; ma sopratutto davan da fare ai buoni pastori e alle buone massaie i diavoli che prendevano aspetto umano e si fingevano anch'essi pastori e venivan riconosciuti solo dalle unghie attorcigliate o dai piedi simili a quelli dell'asino. Gesù venne al mondo per liberarlo da tutti questi esseri maligni, e specialmente dai diavoli; infatti adesso non ne esistono più; ma prima di sparire dal mondo, i diavoli e gli esseri maligni cosa fecero? Lasciarono qua e là oggetti così impregnati della loro malignità che gli uomini che li toccavano diventavano cattivi e tramandavano la loro cattiveria ai loro discendenti. In altro modo non si spiega la malvagità di certi uomini che sembravano diavoli davvero. Gli stessi giudei che presero e uccisero Gesù erano uomini corrotti dall'aver toccato qualche oggetto del diavolo, e i bambini cattivi dei nostri tempi vengono ancora chiamati diavoletti. Ad ogni modo gli uomini fanno ancora una gran festa per ricordare la nascita di Gesù, loro liberatore; presso i popoli ancora patriarcali, come quello della Sardegna, la festa comincia veramente dopo la mezzanotte, si prolunga fino all'alba, con canti, suoni, balli, e dura tutto il carnevale. In certi paesi la gente si porta da mangiare in chiesa, e dopo il "Gloria" tutti cominciano a sgretolare noci e mandorle; all'alba il pavimento della chiesa appare coperto di bucce di mele, scorze di arance, gusci di nocciole. In quasi tutti i paesi la gente si scambia regali, e i fidanzati dànno alla sposa una moneta d'oro o di argento o mandano in dono un porchetto.
Quand'ero ragazzo, m'accadde un'avventura curiosa.
Mio padre era pastore di porci, e stava fuori di casa tutto l'anno, ma per il giorno di Pasqua e per Natale voleva immancabilmente tornare in paese. Finché fui piccolo io, egli in quei giorni faceva custodire il gregge da un servo; ma appena io potei aiutarlo egli mi condusse all'ovile, e la notte di Natale mi toccava di stare lassù, nel bosco umido e freddo, entro una capanna od anche dentro una grotta riparata dai venti e dalla neve, sì, ma nera e paurosa come le grotte delle leggende. Io non avevo paura, anche perché mio padre diceva che mi lasciava solo appunto per abituarmi ad essere coraggioso; ma nella notte di Natale mi sentivo triste, accasciato. Appena sera mi coricavo in un angolo, mi coprivo fino agli occhi col manto , lunga e larga striscia di orbace (panno sardo) che d'inverno noi pastori ci buttiamo sul capo e sulle spalle, allacciandola sotto il mento; e pensavo al Natale in paese. Ecco, pensavo, a quest'ora il fidanzato di mia sorella ha già mandato a casa nostra in regalo un bel porchetto dalla cotenna rossa, sventrato e riempito di foglie d'alloro, mia madre già prepara la grande cena, mentre mia sorella indossa il suo costume nuovo e mette in testa il suo cappuccio per andare alla messa. Arriva il fidanzato, con le saccoccie gonfie di arance, di noci, di ciliegie secche; egli fa forza e si piega da un lato per tirar fuori tutte queste buone cose, le depone sulla panca accanto al focolare e dice: se il povero Moisè fosse qui! Serbategli questa mela cotogna che sembra d'oro.
Pensando a questo valente giovane io mi sentivo intenerire. Egli era di buona famiglia, ma non poteva ancora sposare mia sorella perché appunto la sua famiglia non voleva, essendo egli troppo giovane e dovendo ancora fare il soldato. Era allegro, burlone, aveva le tasche sempre piene di frutta secche, e per questo io gli volevo molto bene. Mio padre diceva che il fidanzato di mia sorella aveva in saccoccia più nocciuole che quattrini; ma io appunto lo preferivo così. Egli mi raccontava storie terribili, di banditi, di cavalli verdi, della Madre dei Venti, e mi piaceva anche per questo.
Una volta egli venne a trovarmi persino su nell'ovile, proprio all'antivigilia di Natale (mio padre era dovuto scendere in paese fin da quel giorno) stette fino al crepuscolo raccontandomi fiabe e storielle paurose. Egli mi diceva che i ragazzi non devono uscire di casa quando soffiano i venti, perché appunto allora la loro Madre, che gira assieme coi figli, porta via i viandanti deboli e gli esseri che non sono resistenti.
Verso sera egli se ne andò. Io rimasi solo, e sebbene la sera fosse calma avevo paura di uscire. Mi coricai sotto il manto , e cominciai a pensare alla festa dell'indomani notte. Mi pareva di veder arrivare a casa il fidanzato, con le saccoccie piene di frutta; le campane suonavano, le donne cullavano i bimbi cantando:

Su ninnicheddu,
Non portat manteddu,
Nemmancu curittu;
In tempus de frittu
No narat tittìa.
Dormi, vida e coro,
E reposa anninnia.

La gente andava alla messa; e mi pareva di veder la chiesa illuminata da sette file di ceri e con gli altari adorni da rami d'arancio carichi di frutta. Al ritorno tutti sedevano sulle stuoie spiegate attorno al focolare, e la gran cena cominciava. Si mangiava il porchetto, il primo latte cagliato, il formaggio col miele; si beveva, si rideva.
Poi gli uomini anziani, seduti a gambe in croce attorno al fuoco, improvvisavano canzoni, e i giovani ballavano il ballo tondo: cominciava l'impuddilonzu (la festa dell'albeggiare), e tutti sembravano folli di gioia, tutti ridevano e cantavano perché era nato Gesù e il demonio doveva sparire dalla terra.
Io ero triste come una fiera sola nel bosco. Avevo undici anni ed era già il terzo Natale che passavo sul Monte; per me l'infanzia era davvero finita da un pezzo; eppure mi sentivo turbato come un bambino di cinque anni. A un tratto sento i maialini grugnire nella mandria, o meglio nel recinto di macigni ov'erano riparati! Un ladro? Il cane però, un grosso cane che sembrava un leone, legato ad un tronco d'albero, non abbaiava. Io ricordai le istruzioni ricevute da mio padre; quindi mi affacciai all'apertura della capanna chiamando "Basile" "Antoni" "Sarbadore" per far fuggire il ladro, al quale, gridando quei nomi, volevo far credere di essere in buona compagnia. Allora anche il cane cominciò ad abbaiare, e pareva parlasse e accusasse qualcuno; io però, se non avevo paura del ladro, ripensavo alle storie raccontate dal fidanzato di mia sorella, e non osavo avanzarmi.
La notte era fredda, ma limpida; la luna saliva sul cielo d'argento e ci si vedeva come all'alba. Io mi feci coraggio, presi l'archibugio lungo due volte più di me, e uscii sullo spiazzo; ma d'un tratto mi parve di vedere poco distante da me un gruppo di cinghiali guidati da un uomo nero e tozzo; ricordai allora che negli antichi tempi, prima che gli uomini fossero maliziosi, il diavolo pascolava alla notte le anime dei malvagi trasformate in porci selvatici, e con paura corsi a rifugiarmi nella capanna. Che volete? Ero anch'io senza malizia, allora, come gli uomini degli antichi tempi: la malizia cominciò a venirmi due giorni dopo, quando mio padre ritornò, contò i maialini e trovandone uno di meno mi bastonò. Per la vergogna io non gli avevo raccontato nulla, né della visita del fidanzato, né delle sue storie paurose, né del rumore sentito alla notte, né del mio terrore superstizioso. Egli credeva che io avessi lasciato smarrire nel bosco il maialino, e mi bastonò per questo: se avesse saputo della mia paura e del mio stupido terrore mi avrebbe bastonato lo stesso e si sarebbe beffato di me.
Ma chi cominciò a beffarsi di me, dopo quella volta, fu il fidanzato di mia sorella. Eppure egli non sapeva e non doveva saper nulla. E solo anni ed anni dopo, quando egli era diventato un uomo serio ed io un giovine pieno di malizia, tutti seppero il segreto di quella notte. Il maialino lo aveva rubato lui, il fidanzato, perché non aveva denari da comprarne uno; e l'indomani lo aveva regalato alla fidanzata, cioè a mia sorella. Era venuto su apposta, a raccontarmi le storie paurose, per impedirmi di uscire alla notte: mio padre, che era allora vecchio e pacifico come un patriarca, quando sentiva raccontare questa storia si faceva rosso per la stizza, pensando che aveva mangiato il suo maialino rubato; e voleva alzarsi dalla stuoia per corrermi dietro e bastonarmi ancora!».


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Il dono di Natale

I cinque fratelli Lobina, tutti pastori, tornavano dai loro ovili, per passare la notte di Natale in famiglia.
Era una festa eccezionale, per loro, quell'anno, perché si fidanzava la loro unica sorella, con un giovane molto ricco.
Come si usa dunque in Sardegna, il fidanzato doveva mandare un regalo alla sua promessa sposa, e poi andare anche lui a passare la festa con la famiglia di lei.
E i cinque fratelli volevano far corona alla sorella, anche per dimostrare al futuro cognato che se non erano ricchi come lui, in cambio erano forti, sani, uniti fra di loro come un gruppo di guerrieri.
Avevano mandato avanti il fratello più piccolo, Felle, un bel ragazzo di undici anni, dai grandi occhi dolci, vestito di pelli lanose come un piccolo San Giovanni Battista; portava sulle spalle una bisaccia, e dentro la bisaccia un maialetto appena ucciso che doveva servire per la cena.
Il piccolo paese era coperto di neve; le casette nere, addossate al monte, parevano disegnate su di un cartone bianco, e la chiesa, sopra un terrapieno sostenuto da macigni, circondata d'alberi carichi di neve e di ghiacciuoli, appariva come uno di quegli edifizi fantastici che disegnano le nuvole.
Tutto era silenzio: gli abitanti sembravano sepolti sotto la neve.
Nella strada che conduceva a casa sua, Felle trovò solo, sulla neve, le impronte di un piede di donna, e si divertì a camminarci sopra. Le impronte cessavano appunto davanti al rozzo cancello di legno del cortile che la sua famiglia possedeva in comune con un'altra famiglia pure di pastori ancora più poveri di loro. Le due casupole, una per parte del cortile, si rassomigliavano come due sorelle; dai comignoli usciva il fumo, dalle porticine trasparivano fili di luce.
Felle fischiò, per annunziare il suo arrivo: e subito, alla porta del vicino si affacciò una ragazzina col viso rosso dal freddo e gli occhi scintillanti di gioia.
- Ben tornato, Felle.
- Oh, Lia! - egli gridò per ricambiarle il saluto, e si avvicinò alla porticina dalla quale, adesso, con la luce usciva anche il fumo di un grande fuoco acceso nel focolare in mezzo alla cucina.
Intorno al focolare stavano sedute le sorelline di Lia, per tenerle buone la maggiore di esse, cioè quella che veniva dopo l'amica di Felle, distribuiva loro qualche chicco di uva passa e cantava una canzoncina d'occasione, cioè una ninnananna per Gesù Bambino.
- Che ci hai, qui? - domandò Lia, toccando la bisaccia di Felle. - Ah, il porchetto. Anche la serva del fidanzato di tua sorella ha già portato il regalo. Farete grande festa voi, - aggiunse con una certa invidia; ma poi si riprese e annunziò con gioia maliziosa: - e anche noi!
Invano Felle le domandò che festa era: Lia gli chiuse la porta in faccia, ed egli attraversò il cortile per entrare in casa sua.
In casa sua si sentiva davvero odore di festa: odore di torta di miele cotta al forno, e di dolci confezionati con buccie di arance e mandorle tostate. Tanto che Felle cominciò a digrignare i denti, sembrandogli di sgretolare già tutte quelle cose buone ma ancora nascoste.
La sorella, alta e sottile, era già vestita a festa; col corsetto di broccato verde e la gonna nera e rossa: intorno al viso pallido aveva un fazzoletto di seta a fiori; ed anche le sue scarpette erano ricamate e col fiocco: pareva insomma una giovane fata, mentre la mamma, tutta vestita di nero per la sua recente vedovanza, pallida anche lei ma scura in viso e con un'aria di superbia, avrebbe potuto ricordare la figura di una strega, senza la grande dolcezza degli occhi che rassomigliavano a quelli di Felle.
Egli intanto traeva dalla bisaccia il porchetto, tutto rosso perché gli avevano tinto la cotenna col suo stesso sangue: e dopo averlo consegnato alla madre volle vedere quello mandato in dono dal fidanzato. Sì, era più grosso quello del fidanzato: quasi un maiale; ma questo portato da lui, più tenero e senza grasso, doveva essere più saporito.
- Ma che festa possono fare i nostri vicini, se essi non hanno che un po' di uva passa, mentre noi abbiamo questi due animaloni in casa? E la torta, e i dolci? - pensò Felle con disprezzo, ancora indispettito perché Lia, dopo averlo quasi chiamato, gli aveva chiuso la porta in faccia.

Poi arrivarono gli altri fratelli, portando nella cucina, prima tutta in ordine e pulita, le impronte dei loro scarponi pieni di neve, e il loro odore di selvatico. Erano tutti forti, belli, con gli occhi neri, la barba nera, il corpetto stretto come una corazza e, sopra, la mastrucca.
Quando entrò il fidanzato si alzarono tutti in piedi, accanto alla sorella, come per far davvero una specie di corpo di guardia intorno all'esile e delicata figura di lei; e non tanto per riguardo al giovine, che era quasi ancora un ragazzo, buono e timido, quanto per l'uomo che lo accompagnava. Quest'uomo era il nonno del fidanzato. Vecchio di oltre ottanta anni, ma ancora dritto e robusto, vestito di panno e di velluto come un gentiluomo medioevale, con le uose di lana sulle gambe forti, questo nonno, che in gioventù aveva combattuto per l'indipendenza d'Italia, fece ai cinque fratelli il saluto militare e parve poi passarli in rivista.
E rimasero tutti scambievolmente contenti.
Al vecchio fu assegnato il posto migliore, accanto al fuoco; e allora sul suo petto, fra i bottoni scintillanti del suo giubbone, si vide anche risplendere come un piccolo astro la sua antica medaglia al valore militare. La fidanzata gli versò da bere, poi versò da bere al fidanzato e questi, nel prendere il bicchiere, le mise in mano, di nascosto, una moneta d'oro.
Ella lo ringraziò con gli occhi, poi, di nascosto pure lei, andò a far vedere la moneta alla madre ed a tutti i fratelli, in ordine di età, mentre portava loro il bicchiere colmo.
L'ultimo fu Felle: e Felle tentò di prenderle la moneta, per scherzo e curiosità, s'intende: ma ella chiuse il pugno minacciosa: avrebbe meglio ceduto un occhio.
Il vecchio sollevò il bicchiere, augurando salute e gioia a tutti; e tutti risposero in coro.
Poi si misero a discutere in un modo originale: vale a dire cantando. Il vecchio era un bravo poeta estemporaneo, improvvisava cioè canzoni; ed anche il fratello maggiore della fidanzata sapeva fare altrettanto.
Fra loro due quindi intonarono una gara di ottave, su allegri argomenti d'occasione; e gli altri ascoltavano, facevano coro e applaudivano.

Fuori le campane suonarono, annunziando la messa.
Era tempo di cominciare a preparare la cena. La madre, aiutata da Felle, staccò le cosce ai due porchetti e le infilò in tre lunghi spiedi dei quali teneva il manico fermo a terra.
- La quarta la porterai in regalo ai nostri vicini - disse a Felle: - anch'essi hanno diritto di godersi la festa.
Tutto contento, Felle prese per la zampa la coscia bella e grassa e uscì nel cortile.
La notte era gelida ma calma, e d'un tratto pareva che il paese tutto si fosse destato, in quel chiarore fantastico di neve, perché, oltre al suono delle campane, si sentivano canti e grida.
Nella casetta del vicino, invece, adesso, tutti tacevano: anche le bambine ancora accovacciate intorno al focolare pareva si fossero addormentate aspettando però ancora, in sogno, un dono meraviglioso.
All'entrata di Felle si scossero, guardarono la coscia del porchetto che egli scuoteva di qua e di là come un incensiere, ma non parlarono: no, non era quello il regalo che aspettavano. Intanto Lia era scesa di corsa dalla cameretta di sopra: prese senza fare complimenti il dono, e alle domande di Felle rispose con impazienza:
- La mamma si sente male: ed il babbo è andato a comprare una bella cosa. Vattene.
Egli rientrò pensieroso a casa sua. Là non c'erano misteri né dolori: tutto era vita, movimento e gioia. Mai un Natale era stato così bello, neppure quando viveva ancora il padre: Felle però si sentiva in fondo un po' triste, pensando alla festa strana della casa dei vicini.

Al terzo tocco della messa, il nonno del fidanzato batté il suo bastone sulla pietra del focolare.
- Oh, ragazzi, su, in fila.
E tutti si alzarono per andare alla messa. In casa rimase solo la madre, per badare agli spiedi che girava lentamente accanto al fuoco per far bene arrostire la carne del porchetto.
I figli, dunque, i fidanzati e il nonno, che pareva guidasse la compagnia, andavano in chiesa. La neve attutiva i loro passi: figure imbacuccate sbucavano da tutte le parti, con lanterne in mano, destando intorno ombre e chiarori fantastici. Si scambiavano saluti, si batteva alle porte chiuse, per chiamare tutti alla messa.
Felle camminava come in sogno; e non aveva freddo; anzi gli alberi bianchi, intorno alla chiesa, gli sembravano mandorli fioriti. Si sentiva insomma, sotto le sue vesti lanose, caldo e felice come un agnellino al sole di maggio: i suoi capelli, freschi di quell'aria di neve, gli sembravano fatti di erba. Pensava alle cose buone che avrebbe mangiato al ritorno dalla messa, nella sua casa riscaldata, e ricordando che Gesù invece doveva nascere in una fredda stalla, nudo e digiuno, gli veniva voglia di piangere, di coprirlo con le sue vesti, di portarselo a casa sua.
Dentro la chiesa continuava l'illusione della primavera: l'altare era tutto adorno di rami di corbezzolo coi frutti rossi, di mirto e di alloro: i ceri brillavano tra le fronde e l'ombra di queste si disegnavano sulle pareti come sui muri di un giardino.
In una cappella sorgeva il presepio, con una montagna fatta di sughero e rivestita di musco: i Re Magi scendevano cauti da un sentiero erto, e una cometa d'oro illuminava loro la via.
Tutto era bello, tutto era luce e gioia. I Re potenti scendevano dai loro troni per portare in dono il loro amore e le loro ricchezze al figlio dei poveri, a Gesù nato in una stalla; gli astri li guidavano; il sangue di Cristo, morto poi per la felicità degli uomini, pioveva sui cespugli e faceva sbocciare le rose; pioveva sugli alberi per far maturare i frutti.
Così la madre aveva insegnato a Felle e così era.
- Gloria, gloria - cantavano i preti sull'altare: e il popolo rispondeva:
- Gloria a Dio nel più alto dei cieli.
E pace in terra agli uomini di buona volontà.
Felle cantava anche lui, e sentiva che questa gioia che gli riempiva il cuore era il più bel dono che Gesù gli mandava.

All'uscita di chiesa sentì un po' freddo, perché era stato sempre inginocchiato sul pavimento nudo: ma la sua gioia non diminuiva; anzi aumentava. Nel sentire l'odore d'arrosto che usciva dalle case, apriva le narici come un cagnolino affamato; e si mise a correre per arrivare in tempo per aiutare la mamma ad apparecchiare per la cena. Ma già tutto era pronto. La madre aveva steso una tovaglia di lino, per terra, su una stuoia di giunco, e altre stuoie attorno. E, secondo l'uso antico, aveva messo fuori, sotto la tettoia del cortile, un piatto di carne e un vaso di vino cotto dove galleggiavano fette di buccia d'arancio, perché l'anima del marito, se mai tornava in questo mondo, avesse da sfamarsi.
Felle andò a vedere: collocò il piatto ed il vaso più in alto, sopra un'asse della tettoia, perché i cani randagi non li toccassero; poi guardò ancora verso la casa dei vicini. Si vedeva sempre luce alla finestra, ma tutto era silenzio; il padre non doveva essere ancora tornato col suo regalo misterioso.

Felle rientrò in casa, e prese parte attiva alla cena.
In mezzo alla mensa sorgeva una piccola torre di focacce tonde e lucide che parevano d'avorio: ciascuno dei commensali ogni tanto si sporgeva in avanti e ne tirava una a sé: anche l'arrosto, tagliato a grosse fette, stava in certi larghi vassoi di legno e di creta: e ognuno si serviva da sé, a sua volontà.
Felle, seduto accanto alla madre, aveva tirato davanti a sé tutto un vassoio per conto suo, e mangiava senza badare più a nulla: attraverso lo scricchiolìo della cotenna abbrustolita del porchetto, i discorsi dei grandi gli parevano lontani, e non lo interessavano più.
Quando poi venne in tavola la torta gialla e calda come il sole, e intorno apparvero i dolci in forma di cuori, di uccelli, di frutta e di fiori, egli si sentì svenire: chiuse gli occhi e si piegò sulla spalla della madre. Ella credette che egli piangesse: invece rideva per il piacere.

Ma quando fu sazio e sentì bisogno di muoversi, ripensò ai suoi vicini di casa: che mai accadeva da loro? E il padre era tornato col dono?
Una curiosità invincibile lo spinse ad uscire ancora nel cortile, ad avvicinarsi e spiare. Del resto la porticina era socchiusa: dentro la cucina le bambine stavano ancora intorno al focolare ed il padre, arrivato tardi ma sempre in tempo, arrostiva allo spiedo la coscia del porchetto donato dai vicini di casa.
Ma il regalo comprato da lui, dal padre, dov'era?
- Vieni avanti, e va su a vedere - gli disse l'uomo, indovinando il pensiero di lui.
Felle entrò, salì la scaletta di legno, e nella cameretta su, vide la madre di Lia assopita nel letto di legno, e Lia inginocchiata davanti ad un canestro.
E dentro il canestro, fra pannolini caldi, stava un bambino appena nato, un bel bambino rosso, con due riccioli sulle tempie e gli occhi già aperti.
- È il nostro primo fratellino - mormorò Lia. - Mio padre l'ha comprato a mezzanotte precisa, mentre le campane suonavano il "Gloria". Le sue ossa, quindi, non si disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale. Ecco il dono che Gesù ci ha fatto questa notte.


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Questo è Natale?

Nel paradiso degli animali l’anima dell’asinello chiese all’anima del bue: “Ti ricordi per caso quella notte, tanti anni fa, quando ci siamo trovati in una specie di capanna e là, nella mangiatoia…?”
“Lasciami pensare… Ma sì - rispose il bue - nella mangiatoia, se ben ricordo, c’era un bambino appena nato”.
“Bravo. E da allora sapresti immaginare quanti anni sono passati?”
“Eh no, figurati! Con la memoria da bue che mi ritrovo”.
“Più di duemila”.
“Accipicchia”.
“E a proposito, lo sai chi era quel bambino?”
“Come faccio a saperlo? Era gente di passaggio, se non sbaglio. Certo, era un bellissimo bambino”.
L’asinello sussurrò qualche cosa al bue.
“Ma no! - fece costui - sul serio? Vorrai scherzare spero”.
“La verità, lo giuro. Del resto io lo avevo capito subito…”
“Io no - confessò il bue - si vede che tu sei più intelligente. A me, non aveva neppure sfiorato il sospetto. Benché, certo, a vedersi, era un bambino straordinario”.
“Bene, da allora gli uomini ogni anno fanno grande festa per l’anniversario della nascita. Per loro è la giornata più bella. Tu li vedessi. È il tempo delle serenità, della dolcezza, del riposo dell’animo, della pace, delle gioie familiari, del volersi bene. Perfino i manigoldi diventano buoni come agnelli. Lo chiamano Natale. Anzi, mi viene un’idea, già che siamo in argomento, perché non andiamo a dare un’occhiata?”
“Dove?”
“Giù sulla terra, no!”
“Ci sei già stato?!"
“Ogni anno, o quasi, faccio una scappata. Ho un lasciapassare speciale. Te lo puoi fare anche tu. Dopo tutto, qualche piccola benemerenza possiamo vantarla, noi due”.
“Per via di aver scaldato il bambino col fiato?”
“Su, vieni, se non vuoi perdere il meglio. Oggi è la vigilia”.
“E il lasciapassare per me?”
“Ho un cugino all’ufficio passaporti”.
Il lasciapassare fu concesso. Partirono. Lievi, lievi. Planarono sulla terra, adocchiarono un lume, vi puntarono sopra.
Il lume era una grandissima città.
Ed ecco il somarello e il bue aggirarsi per le vie del centro, trattandosi di spirito, automobili e tram gli passavano in mezzo senza danno, e a loro volta le due bestie passavano attraverso come se fossero fatti d’aria. Così potevano vedere bene tutto quanto.
Era uno spettacolo impressionante, mille lumi, le vetrine, le ghirlande, gli abeti e lo sterminato ingorgo di automobili, e il vertiginoso formicolio della gente che andava e veniva, entrava ed usciva, tutti carichi di pacchetti, con un’espressione ansiosa e frenetica, come se fossero inseguiti.
Il somarello sembrava divertito. Il bue si guardava intorno con spavento.
“Senti amico: mi avevi detto che mi portavi a vedere il Natale. Ma devi esseri sbagliato. Qui stanno facendo al guerra”.
“Ma non vedi come sono tutti contenti?”
“Contenti? A me sembrano pazzi”.
“Perché tu sei un provinciale, caro il mio bue. Tu non sei pratico degli uomini moderni, tutto qui. Per sentirsi felici, hanno bisogno di rovinarsi i nervi”.
Per togliersi da quella confusione, il bue, valendosi della sua natura di spirito, fece una svolazzatine e si fermò a curiosare a una finestra del decimo piano. E l’asinello, gentilmente, dietro.
Videro una stanza riccamente ammobiliata e nella stanza, seduta a un tavolo, una signora molto preoccupata.
Alla sua sinistra, sul tavolo, un cumulo alto messo metro carte e cartoncini colorati, alla sua destra cartoncini bianchi. Con l’evidente assillo di non perdere un minuto, la signora, sveltissima, prendeva uno dei cartoncini colorati lo esaminava un istante poi consultava grossi volumi, subito scriveva su uno dei cartoncini bianchi, lo infilava in una busta, scriveva qualcosa sulla busta, chiudeva la busta quindi prendeva dal mucchio di destra un altro cartoncino e ricominciava la manovra. Quanto tempo ci vorrà per smaltirlo? La sciagurata ansimava.
“La pagheranno bene, immagino, - fece il bue - per un lavoro simile”
“Sei ingenuo, amico mio. Questa è una signora ricchissima e della migliore società”.
“E allora perché si sta massacrando così?”
“Non si massacra. Sta rispondendo ai biglietti di auguri”.
“Auguri? E a che cosa servono?”
“Niente. Zero. Ma chissà come, gli uomini ne hanno una mania”.
Si affacciarono più in là, a un’altra finestra. Anche qui gente che, trafelata, scriveva biglietti su biglietti, la fronte imperlata di sudore. Dovunque le bestie guardassero, ecco uomini e donne fare pacchi, preparare buste, correre al telefono, spostarsi fulmineamente da una stanza all’altra portando pacchi, spaghi, nastri, carte, pendagli e intanto entravano giovani inservienti con la faccia devastata portando altri pacchi altre scatole, altri fiori, altri mucchi di auguri. E tutto era precipitazione, ansia, fastidio, confusione e una terribile fatica.
Dappertutto lo stesso spettacolo.
Andare e venire, comprare e impaccare, spedire e ricevere, imballare e sballare, chiamare e rispondere e tutti guardavano continuamente l’orologio, tutti correvano, tutti ansimavano con il terrore di non fare in tempo e qualcuno crollava boccheggiando.
“Ma avevi detto - osservò il bue - che era la festa della serenità e della pace”.
“Già - rispose l’asinello - una volta era così. Ma cosa vuoi, da qualche anno, sarà questione della società dei consumi… Li ha morsi una misteriosa tarantola. Ascoltali, ascoltali!”
Il bue tese le orecchie. Per le strade, nei negozi , negli uffici, nelle fabbriche uomini e donne parlavano fitto fitto scambiandosi come automi delle monotone formule di buon Natale, auguri, auguri, altrettanto auguri a lei grazie. Un brusio che riempiva la città.
“Ma ci credono? - chiese il bue - Lo dicono sul serio? Vogliono veramente tanto bene al prossimo?”
L’asinello tacque.
“E se ci ritirassimo un poco in disparte? - suggerì il bovino - Ho ormai la testa che è un pallone. Sei proprio sicuro che non sono usciti tutti matti?”
“No, no. È semplicemente Natale”.
“Ce n’è troppo, allora. Ti ricordi quella notte a Betlemme, la capanna, i pastori, quel bel bambino. Era freddo anche lì, eppure c’era una pace, una soddisfazione. Come era diverso!” “E quelle zampogne lontane che si sentivano appena appena”. “E sul tetto, ti ricordi, come un lieve svolazzamento. Chissà che uccelli erano”.
“Uccelli? Testone che non sei altro. Angeli erano!”.
“E la stella? Non ti ricordi che razza di stella, proprio sopra la capanna? Chissà che non ci sia ancora, le stelle hanno la vita lunga”.
“Ho idea di no - disse l’asino - c’è poca aria di stelle, qui”.
Alzarono il muso a guardare, e infatti non si vedeva niente, sulla città c’era un soffitto di caligine e di smog.


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